Morire per la verità

Nell’anno della Primavera araba, aumentano i giornalisti uccisi

 

Ci sono soprattutto le città dei paesi protagonisti della primavera araba tra i luoghi dove nel 2011 è aumentato il numero dei giornalisti uccisi: in totale, sulla base del bilancio annuale diffuso dall’organizzazione ‘Reporter senza frontiere’ il numero di chi ha perso la vita nell’esercizio della propria professione è aumentato del 16% rispetto all’anno precedente: 66 giornalisti sono stati uccisi, di cui 20 in Medio Oriente, il doppio rispetto al 2010, 1044 sono stati arrestati, 71 rapiti e 1959 aggrediti o minacciati.

Manama, capitale del Bahrain, Piazza Tahrir, epicentro della rivolta popolare egiziana dove si è verificata una “vera campagna di odio nei confronti della stampa internazionale” sono stati alcuni  dei posti più pericolosi per i media secondo Rsf. Nella classifica sono anche inseriti Misurata, in Libia, feudo dei rivoltosi dopo la liberazione di Bengasi, dove si sono tenuti gli scontri più intensi con le truppe dell’ex guida libica, Muammar Gheddafi. Rimanendo sempre nell’area, Daraa, Homs e Damasco in Siria hanno visto aggressioni quotidiane ai danni dei giornalisti così come la Piazza del cambiamento a Sana’a in Yemen.

In Africa Abidjan, capitale economica della Costa d’Avorio, è stata particolarmente pericolosa per i professionisti dei media che sono stati bersagliati nel braccio di ferro elettorale tra l’ex presidente Laurent Gbagbo e il suo rivale Alassane Dramane Ouattara. Sul continente africano anche Mogadiscio detiene il primato del rischio per i giornalisti, vittime di omicidi mirati e attentati nel paese del Corno d’Africa in preda alla guerra da 30 anni.

Altri 20 giornalisti sono stati uccisi in America latina, “molto esposta alla violenza e all’insicurezza” sottolinea Rsf che colloca il luogo più pericoloso nello stato di Veracruz in Messico. Ma per il secondo anno consecutivo, il Pakistan, che ha registrato 10 vittime, si conferma come il paese più rischioso per la stampa, in particolare Khuzdar, nella provincia del Baluchistan. Le tre zone urbane di Manilla, Cebu e Cagayan de Oro sulle isole di Luzon e Mindanao, nelle Filippine, sono altrettanto pericolose.

L’altra tendenza del 2011 evidenziata dall’organizzazione per la difesa della libertà di stampa è l’aumento delle aggressioni ai danni dei giornalisti, stimato in 43%, e l’arresto di circa 199 blogger e cittadini esperti di web “in prima linea nella mobilitazione popolare in paesi sottoposti al black-out mediatico”. Quest’anno Cina, Iran e Eritrea rimangono le più grandi prigioni al mondo per la stampa.


Articolo tratto da MISNA – Missionary International Service News Agency, immagine iniziale tratta da JDS – Journalists for Democracy in Sri Lanka.


Questi numeri sono molto alti e fanno una certa impressione. Un numero elevato può dire qualcosa ma il senso della reltà si ha solo vedendo dietro i numeri i volti di ognuno di questi uomini e donne. Per questo vi propongo un altro articolo:


Somalia, in morte di Hassan, giornalista



Aveva solo 29 anni e lo hanno assassinato brutalmente davanti alla porta di casa. Stava andando a fare visita alla famiglia, una moglie e tre figli piccoli che non vedeva spesso. La maggior parte del suo tempo, Hassan Osman Abdi, lo passava trincerato dentro la redazione della radio e della web-tv che dirigeva, Shabelle Media Network. Mentre, intorno a lui, ormai da vent’anni, si consumava una spietata guerra senza fine.

Siamo a Mogadiscio, in Somalia. In questa parte del Corno d’Africa, il mestiere di giornalista è in cima alla lista delle attività più pericolose. Dal 2007, secondo le stime di Amnesty International, sono almeno 27 i reporter vittime di attacchi mirati per mano dei gruppi armati che si contendono il potere su un territorio già devastato, oltre che dalla guerra, dalla miseria. In un contesto così complesso e conflittuale, quella del giornalista indipendente, si sa, è una figura scomoda. Come assai scomoda è sin dalla sua nascita, nel 2002, l’emittente Radio Shabelle, che ha sempre rifiutato di fare il gioco delle parti in lotta, prestando fede alla sua missione di fornire al popolo somalo un’informazione libera e indipendente. Un obiettivo raggiunto con successo, tanto che esattamente un anno fa, sotto la direzione di Hassan Osman Abdi, l’emittente ha vinto il premio di Reporter senza frontiere per la libertà di informazione. Ma altissimo è il prezzo che questa coraggiosa redazione ha dovuto pagare: sette reporter assassinati, di cui tre direttori.



“Offriamo un servizio indipendente alla società, è questo ciò che facciamo”, spiegava Hassan Osman Abdi appena due mesi fa alla rivista Colors, che nel numero speciale “Colors With Love” ha pubblicato un reportage sulla radio. Ed è questo ciò che egli ha fatto fino all’ultimo, racconta il suo collega alla radio, Ali Dahir. Hassan – detto “il Fantastico” per le sue eccezionali qualità umane, spiega Ali Dahir – non perdeva mai l’occasione di denunciare sia la corruzione e l’inadeguatezza delle autorità somale sia la brutalità delle milizie filo-qaediste di Al Shabab. Radio Shabelle è stata l’unica emittente che è riuscita a resistere alle offensive e alle minacce dei gruppi islamisti. Per continuare a trasmettere, la radio ha dovuto trasferire la propria sede dal centro della capitale, dove rischiava di essere usata come megafono dalle milizie, alla zona dell’aeroporto. “I nostri giornalisti – raccontava Hassan due mesi fa – dormono in redazione per paura di uscire, tali sono le minacce di morte che riceviamo”.

La morte, per Hassan “il Fantastico”, è arrivata la sera del 28 gennaio scorso. Testimoni raccontano che a sparargli varie volte alla testa sarebbe stata una gang di cinque uomini mascherati. A nulla è servito il trasporto in ospedale, dove il giovane giornalista ha perso la vita. Ora, ciò che preoccupa la squadra di Radio Shabelle e le organizzazioni per i diritti umani è che il crimine resti impunito. Troppo spesso in passato, infatti, delitti simili sono rimasti senza colpevoli. Il governo federale di transizione ha promesso di condurre indagini approfondite per arrivare ad individuare i colpevoli. Ma i colleghi di Hassan non ci credono: “Non mi fido delle promesse del governo – ha dichiarato Ali Dahir – Hassan era una persona scomoda, e non credo che sapremo mai chi l’ha assassinato”. Come dargli torto? Del resto, nessun processo è stato mai aperto per gli assassini degli altri giornalisti somali. Contro il rischio dell’impunità si è espressa anche l’Alto Rappresentante dell’Ue per gli Affari Esteri, Catherine Ashton. Non resta che sperare che la comunità internazionale non abbassi la guardia. Al momento, quattro persone sono state arrestate. Secondo Ali Dahir, non vi sarebbe evidenza di un coinvolgimento delle milizie di Al Shabab, anche se il premier del governo di transizione ha già puntato il dito contro gli estremisti.

“Sono giorni di grande tristezza a Radio Shabelle”, racconta Ali Dahir. Subito dopo la morte di Hassan, un altro cronista ha ricevuto una minaccia di morte. L’ennesima. Perché fare i giornalisti in Somalia è così. Il pericolo è sempre presente: è una condizione che chi sceglie di fare questo mestiere accetta. “Tutti i giorni ci chiediamo se saremo i prossimi a morire, ma quello che facciamo per la nostra gente è importante e vale la nostra vita”. Sono parole pronunciate da Hassan Osman Abdi appena due mesi prima di essere ucciso. Ed è per questo che Radio Shabelle non smetterà di svolgere il proprio lavoro.

Cora Ranci


Articolo, video e immagine tratti da E – il mensile online, foto: André Liohn/Prospekt photographers.

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